Giovani medici si raccontano: Michela Pizzini

Nome: Michela Pizzini
Età: 32 anni

Professione: medico internista specializzando
Segni particolari:
la dedizione
 

Coraggio vs retorica. Missione vs vocazione. Se il futuro è dei giovani, è anche vero che i giovani sono futuro. La loro voce, più di ogni slogan, può farci cambiare prospettiva e, magari, vincere le sfide. Diamoci la possibilità di ascoltarla. Entriamo nel cuore delle cose, fuori da ogni approssimazione. È ora di fare sul serio. 

Michela è un giovane medico specializzando. Si è laureata a Verona, la sua città, e ha vinto una borsa di specialità della Provincia di Trento. Sta completando la sua formazione nel reparto di medicina interna dell’Ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto, in Trentino. La vocazione, la scelta e la cura. 

LA SCUOLA

Quale percorso ti ha portata a Rovereto?

Vengo dalla provincia di Verona e lì ho studiato medicina e completato i primi 3 anni di specializzazione. Nel frattempo, ho conosciuto colui che è diventato mio marito. Lui abitava a Pergine Valsugana, qui in Trentino, e, insieme, abbiamo cercato di conciliare i miei impegni e la nostra vita privata dividendoci tra Pergine e Verona. La vita privata, insomma, si è messa in mezzo fino a che, con l’inizio della mia specializzazione, abbiamo trovato un punto d’incontro e ci siamo stabiliti ad Ala. Ora abbiamo comprato casa qui a Rovereto.

Con la tua borsa di specialità della Provincia di Trento, hai appena cominciato i tuoi 20 mesi qui in ospedale. Sei stata assunta con il Decreto Calabria?

Sì. In accordo con la dott.ssa Cozzio, il capo Dipartimento delle medicine interne del Trentino, e l’ufficio tirocini, a differenza di altri colleghi che sono andati tutti al Santa Chiara di Trento, ho deciso di entrare in altre strutture del Trentino. Potevo scegliere quale. Geograficamente io puntavo Arco e Rovereto. Sono molto interessata alle patologie pneumologiche. Arco ha il servizio di pneumologia, Rovereto di spirometria. Ho scelto Rovereto, dopo tanti anni di pendolarismo.

Che ambiente hai trovato?

Molto diverso da ciò che conoscevo. In un ospedale universitario sei l’ennesimo specializzando che arriva ad occupare un posto. Qui, meno abituati alla presenza di specializzandi, mi aspettavano con foga, sapevano già tutti che il tal giorno sarei arrivata. Ti attendono proprio, ti danno subito mansioni, non nel senso negativo di farti fare, non ti sbolognano le pratiche burocratiche. Qui non sei l’ultimo del carro che è arrivato, ti coinvolgono da subito nei meeting di reparto, nelle attività, anche quelle belle di reparto. Sei un pari.

Cosa facevi a Verona come specializzanda?

La vita a Verona degli specializzandi è un po’ particolare, nel senso che ti interfacci molto più coi tuoi coetanei piuttosto che con medici strutturati o specialisti, perché sono impegnati, stanno poco in reparto e cerchi di disturbarli il meno possibile. Quindi, si crea una rete di aiuto, di mutuo scambio tra quasi coetanei. Qui c’è un rapporto quasi diretto, di uno a uno, con chi ha anche 20 anni di esperienza più di te. Questa persona ti aspetta perché vede in te una risorsa, una persona fresca di studi e conta tanto su di te. Come noi contiamo molto su di loro.

IL LAVORO

Come ti ha fatto sentire?

All’inizio ti spiazza tantissimo perché realizzi che sei uscito dal mondo della scuola. Che lo vogliamo o no, la specializzazione è ancora protezione. Capisci che sei diventato grande e sei entrato nel mondo del lavoro. Per noi, questa cosa arriva a 30 anni suonati. Però, non sei mai abbandonato. Sei uno in più nel gruppo. Sanno che sei il più giovane, che puoi essere il più debole, hai meno esperienza e quindi ricevi il supporto che ti serve.

Che turni fate da specializzandi?

Iniziamo alle 8.00 della mattina, alle 8.30 facciamo meeting di reparto e poi tra le 16.00 e le 18.00 cerchiamo di concludere. L’orario di uscita è molto variabile, dipende anche dalla stabilità dei pazienti e dai colloqui coi parenti. Se, però, hai impegni, riesci a organizzarti coi colleghi. Ogni équipe è formata da tre medici.

Che possibilità di crescita vedi per te qui dentro?

Vedo tante possibilità. Lo trovo un ambiente molto stimolante anche come casistica che è estremamente variegata. Vedi casi che non avresti mai valutato da altre parti, semplicemente perché prima di essere dirottati, certi pazienti non sarebbero comunque mai passati nelle tue mani. Questo vale per noi internisti in particolare perché un paziente da inquadrare arriva prima a noi. Credo di aver fatto più step come crescita formativa e professionale in quattro mesi qua dentro che non in quattro anni a Verona.

Come ti definiresti come medico?

Curiosa. Ho sempre voglia di andare a fondo ai vari quesiti che incontriamo. Voglio trovare risposte. La parte più bella della giornata è il giro visita con i pazienti. È lì che fai la medicina vera. Il paziente stesso, chiacchierando con te, ti dà spesso la chiave di lettura per comprendere il suo problema, ti dà i pezzi del puzzle che ti suggeriscono la via per la diagnosi. Mi piace la corsia.

LA CARRIERA

Rifaresti questa scelta?

Sì, mi vedo qua. Non mi vedo in laboratorio o a prendermi un altro master di ricerca, mi vedo qua con i miei pazienti. A Verona mi è capitato anche di dire, vabbè, oggi pomeriggio esco più tardi perché c’era un anziano lì da solo da un mese che aveva le carte da briscola e ho giocato a briscola con lui prima di andare a casa. Sono queste piccole cose che fanno la differenza.

Qual è stata l’esperienza più pesante che hai vissuto da medico?

Un brutto decesso di una giovane signora. La gestione della figlia, che aveva la mia età, quella è stata la cosa più brutta in assoluto.

Durante i vostri percorsi di studio vi insegnano a gestire queste cose?

No. Il Trentino offre sia per i pazienti che per noi personale, se ne facciamo richiesta, il supporto psicologico. Cosa che ho visto per la prima volta qua. Non solo, per i pazienti esiste anche un coordinatore di percorso, addetto a organizzare il rientro a domicilio con tutta la rete di appoggio trentina di cure intermedie, RSA, piuttosto che hospice,… affinché il paziente, una volta che torna a casa, abbia un basso rischio di essere riospedalizzato un’altra volta. Anche questa è una cosa che ho visto qua. Noi interagiamo con i medici di base, i sanitari delle varie strutture ricettive e con gli infermieri che vanno a casa dei pazienti per proseguire la cura che qua è stata impostata.

Perché hai deciso di studiare medicina?

Ho deciso abbastanza presto, mi sa che ero ancora in seconda o terza superiore. Forse per un mio pregresso vissuto da paziente per tanti anni in età pediatrica, ma io mi immaginavo in questa professione e punto, che combina sia l’ambito scientifico che l’ambito umanistico senza escludere né l’uno né l’altro.

Ed è il motivo per cui hai scelto medicina interna?

Sì.

L’avevi deciso quasi subito?

Sì. Non riesco a pensare a una vita intera dedicata a un solo organo perché il paziente è fatto di tutto.

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