Giovani medici si raccontano: Matteo Morandi

Nome: Matteo Morandi
Età: 32 anni
Professione: medico
internista specializzando
Segni particolari: il cuore

Coraggio vs retorica. Missione vs vocazione. Se il futuro è dei giovani, è anche vero che i giovani sono futuro. La loro voce, più di ogni slogan, può farci cambiare prospettiva e, magari, vincere le sfide. Diamoci la possibilità di ascoltarla. Entriamo nel cuore delle cose, fuori da ogni approssimazione. È ora di fare sul serio. 

Matteo è un giovane medico specializzando. Si è laureato a Verona e ha vinto una borsa di specialità della Provincia di Trento. Sta completando la sua formazione nel reparto di medicina interna dell’Ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto, in Trentino. La corsia, le responsabilità e le prospettive di futuro. 

LA SCELTA

Perché hai scelto di fare il medico? 

Questa è la domanda più difficile di tutte. L’ambito sanitario mi è sempre piaciuto ma all’inizio non avevo scelto medicina. Volevo fare il tecnico di laboratorio, fare le analisi. Poi ho conosciuto una dottoressa che in laboratorio lavorava sui batteri con una sicurezza e una conoscenza tali che sembrava si occupasse di fantascienza. Sono rimasto affascinato ed è lì che ho detto: voglio di più, essere chi decide, stare dall’altra parte. Così ho studiato medicina, sempre con l’idea di fare poi una specialità di laboratorio della microbiologia.  

E invece hai scelto medicina interna… 

Sì, è che durante il percorso entri nei reparti, inizi a fare il clinico e ho capito che lavorare con i pazienti, gestire le terapie mi dava soddisfazione. Anche potermi occupare dell’aspetto sociale, del loro ritorno a casa. 

Come hai scelto la tua borsa di specialità? 

Ho studiato a Verona e ho scelto di fare la specialità non con un concorso nazionale accettando un contratto della Provincia autonoma di Trento. Per fare un percorso di specializzazione, a differenza di un tempo che era gratuito, devi trovare chi te lo finanzia. La Provincia ogni anno seleziona quali sono le sue aree di carenza, fa un piano e organizza i concorsi. A questo punto propone un contratto, cioè ci paga una borsa e ci opziona per due anni al termine del percorso, a differenza del percorso nazionale per cui, dopo la tesi di specialità, sei libero di cercare una struttura in qualunque sede tu riesca a trovare un inserimento. La nostra è una via già proiettata all’inserimento in organico. 

LA CORSIA

Quanto tempo devi garantire al Trentino durante il quinquennio di specialità? 

La mia borsa prevedeva che io rimanessi 4 mesi l’anno sul territorio trentino e i restanti in sede universitaria. Per medicina interna, il Trentino ha scelto di raggruppare quei 4 mesi tutti insieme alla fine, sostanzialmente negli ultimi 20 del tuo quinquennio, perché sei già formato, hai più esperienza, ti guardano lavorare, ti conoscono e provvedono a colmare le tue carenze. 

Hai usufruito del Decreto Calabria? 

Sì. Ti spiego. Quest’anno c’è stato un concorso per la medicina interna che è stato a febbraio marzo a cui abbiamo partecipato noi specializzandi di Verona ma anche altri specialisti. Ai concorsi per assunzione a tempo indeterminato possono accedere anche gli specializzandi già dall’ultimo e penultimo anno. Ovviamente, viene stilata una graduatoria separata. La precedenza la hanno gli specialisti. Io sono comunque entrato in graduatoria e, non essendo ancora specializzato, ho firmato un contratto Calabria. Cioè, sono stato assunto già con uno stipendio da dirigente medico e in automatico, nel momento in cui ho concluso la mia specializzazione, il mio contratto si è trasformato in indeterminato. Il Calabria prevede che il primario o il dirigente valuti, mentre sei in servizio, il tuo grado di autonomia e in base a quello ti lasci più o meno libertà. L’autonomia che hai si adatta a te, non sei mai lasciato allo sbaraglio.  

Quali sono le differenze maggiori tra un percorso di specialità fatto in una realtà universitaria e una in un ospedale puro come questo? 

In una clinica universitaria lavori meno con personale ospedaliero. I tuoi professori sono personale universitario, ultra-settorializzato. Io, ad esempio, ho lavorato a Verona con una delle massime esperte di malattie ematologiche non oncologiche. Lì, il limite di ciò che puoi fare esiste solo nella tua immaginazione. Puoi permetterti il lusso di dedicarti anche a patologie rare. Qui ti adoperi per il paziente. Il mondo ospedaliero non ha a disposizione tutte le risorse di un ospedale universitario perché ti occupi di settori per i quali esiste la casistica, non si tratta di puro studio. L’ospedale è più serrato sulle procedure diagnostiche, quindi abbiamo medici che vengono formati apposta, ad esempio, per gestire in autonomia una ecocardio o dei doppler. C’è un mio collega che sta facendo un master in coagulazione. Qui il tuo percorso e la tua formazione sono orientati a costruire un’équipe che possa ridurre i tempi delle consulenze specialistiche e quindi delle procedure per il malato. Nulla ti è imposto, però.  

IL FUTURO 

A te cosa piace di più? Lo studio accademico o la pratica in ospedale? 

A me piace la relazione con il paziente e mi piace la vita da internista qui. Mi piace fare il medico di corsia, ecco. Noi internisti abbiamo scelto di stare con il paziente e di gestirlo nella sua completezza e complessità. Lo prendiamo per mano e cerchiamo di rimetterlo in piedi nella sua interezza. Ce ne facciamo carico anche socialmente. Meglio una terapia da letteratura che compromette la sua qualità di vita o optiamo per una qualità di vita migliore dosando diversamente farmaci che pure riescono a curarlo? Quanto spingere sul paziente per metterlo in condizioni di dover dipendere dalle macchine per stare in vita? Valuti e decidi con il tuo paziente, lo accompagni, gli stai vicino fino alla fine. Questo piace a me, anche quando è più difficile. E questo riesco a farlo qui. 

Perché hai scelto Rovereto? 

All’inizio dei miei 20 mesi, mi sono messo in contatto con la dott.ssa Cozzio, il capo Dipartimento delle medicine interne del Trentino, e abbiamo valutato che Trento era già ben coperto, che qui avrei avuto più margine di crescita e, col tempo, di autonomia. Ho accettato.  

Paure? 

Passare da un ospedale universitario a uno più periferico, ti fa paura all’inizio. Paura di non riuscire ad ambientarti. Lasci colleghi che conosci, che erano con te quando hai vissuto i primi traumi, anche il covid, ad esempio, quando siamo stati costretti ad affrontare ciò che non sapevamo. Ti chiedi: mi verrà chiesto di fare cose che non sono pronto a fare, il paziente risponderà alla mia terapia, farò da solo?  

E come le hai superate? 

Vedendo che anche qui da solo non sei mai. Ti trovi all’interno di una gestione collegiale del paziente, se ne discute insieme. Hai molto supporto anche dagli infermieri. Qui gli infermieri sono molto coinvolti, fanno come routine e procedure ciò che facevamo noi specializzandi. Conoscono il paziente e le terapie si discutono anche con loro.  

Dove ti vedi tra 10 anni? 

Io spero di essere qua. È vero che si tratta del primo lavoro da strutturato, da assunto, da autonomo ed è bello. Ma parlo con cognizione di causa. Qui mi sento me stesso. Sento che effettivamente arrivo a casa e mi dico “il paziente l’ho curato, magari non l’ho curato da solo però ci ho messo del mio”.  

 

 

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