La sanità del futuro ǀ Le storie: Claudia Vergot

Nome: Claudia Vergot
Età: 52 anni

Professione: direttore di Unità operativa di anestesia e rianimazione
Segni particolari:
appassionata
 

La dott.ssa Claudia Vergot è, dal 2017, il direttore dell’Unità operativa di anestesia e rianimazione dell’Ospedale San Lorenzo di Borgo Valsugana in Trentino. Ha studiato a Milano e si è specializzata a Verona. Ha costruito la sua carriera tra ospedali maggiori e minori a Bolzano e nella provincia di Trento.  

La incontriamo nel suo studio tra una consulenza e l’altra nelle varie strutture ospedaliere. Ci accoglie con un sorriso. Generosa nel racconto e orgogliosa della sua Unità operativa, sa donare tempo, nonostante gli impegni, le urgenze, la cura del personale che coordina e dei pazienti. Con lei, entriamo nel passato, nel presente e nel futuro di un’Unità operativa della rete ospedaliera del Trentino: giovani medici, consulenti e primari tra passione, coraggio e rumore. 

LA FORMAZIONE

Dottoressa Vergot, com’è cominciato il suo percorso di medico?  

Mi sono laureata in medicina a Milano e volevo fare la neurologa. Tant’è che nel mio primo anno di specialità ho proprio studiato neurologia. È stato in quel periodo, quando allora si potevano fare già anche le guardie mediche, che mi sono appassionata di emergenza. Così l’anno successivo ho fatto il concorso per anestesia e rianimazione a Verona, l’ho vinto e devo dire che non ho mai avuto ripensamenti. A me piace tantissimo quello che faccio. L’ultimo anno di specialità sono stata assunta a Desenzano dove c’era necessità di un medico in terapia intensiva. Esattamente un anno dopo, in attesa di concorso, mi ha voluto il primario di Bolzano. Lì ho affrontato la parte anestesiologica in tutte le sue specialità. Poi, uscito il bando, ho vinto il concorso in Azienda per i servizi sanitari e sono entrata nell’Ospedale di Cavalese.  

Il primo contratto in Trentino… 

Sì, sono originaria di Levico Terme e mi faceva piacere tornare qui. Sono rimasta a Cavalese due anni e ho avuto la fortuna di avere come primario il dott. Geat, uno degli anestesisti più esperti del Santa Chiara di Trento. Ho imparato tantissimo, con lui e un altro collega di Trento abbiamo messo in piedi l’Unità operativa. 

Si impara anche negli ospedali di valle, quindi? 

Sì, ho imparato tantissimo, soprattutto per quanto riguarda le emergenze. Era il 2000, arrivavano emergenze critiche e ho affrontato la traumatologia importante. Ricordo che ero una giovane specialista e una notte ho dovuto intubare un bambino, un turista, di 6 anni, in coma epilettico con una grossa lesione cerebrale. Lo abbiamo trasportato a Trento con un elicottero militare, allora. In situazioni del genere devi fare il leader in un contesto di assoluta emergenza. Ciò che ha fatto sì che tutto andasse bene è stata l’affinità del team. A differenza di un ospedale grande, hai una squadra che ti conosce e sa da subito di cosa hai bisogno, dai farmaci ai dispositivi, sa come ti muovi e cosa a te serve fare. Noi anestesisti siamo un po’ come degli “artisti” nella gestione del paziente sia dal punto di vista internistico che anestesiologico. 

Cosa vuol dire? 

L’anestesia è un’azione che facciamo sul paziente per il bene del paziente. Conosci i farmaci, conosci bene le tecniche anestesiologiche e poi operi l’anestesia che meglio si addice al paziente e che meglio ritieni di poter gestire tu in quel contesto. Hai tanti strumenti a disposizione e diversi gradi di criticità del paziente, un conto è se fai un trattamento di elezione dove hai la possibilità di valutare a fondo, altro se tempo ne hai poco o non ne hai, ed è in base a quello che decidi come operare.  

LA CARRIERA 

Dopo Cavalese, Trento… 

Sì, prima in anestesia polivalente, poi in rianimazione e, infine, nel 2012, nella nuova rianimazione cardio chirurgica che non avevo ancora affrontato prima. Poi, il concorso per il primariato a Borgo nel 2017 dove ho trovato 2 sale operatorie, il centro di valutazione preoperatoria, la terapia del dolore e la gestione delle emergenze ospedaliere, il pronto soccorso e, ovviamente, i reparti. Anestesia e rianimazione è una specialità prettamente maschile ma in quel periodo nella rosa finale per il posto eravamo tre donne, segno del cambiamento dei tempi. 

Da quanti medici è formata la sua Unità operativa? 

Eravamo in 4 e ora siamo rimasti in 2 più un consulente, un medico in pensione che si divide tra noi e Cles e che viene a darci supporto. In realtà, anche così non ce la facciamo. Ho chiesto aiuto a Trento e Rovereto e ho avuto una risposta immediata. Io credo nella rete. Un’unica rete che si chiama Azienda provinciale per i servizi sanitari. Ad esempio, io credo tantissimo nella terapia del dolore e abbiamo creato un’équipe operativa formata da chiunque se ne possa occupare e capace di agire in tutte le strutture ospedaliere dell’APSS a seconda delle sue competenze. Dobbiamo pensare che Trento non può sopperire a tutto ciò che è possibile fare altrove, anche qui. Tant’è che tutta la traumatologia minore di Trento arriva qui e soprattutto noi siamo un centro di eccellenza per l’odontostomatologia per pazienti diversamente abili.  

Di quanti medici avreste bisogno in più? 

Se avessi l’unità al completo, riuscirei almeno a gestire anche la lunga lista di attesa di terapia del dolore. O se potessi contare sugli specializzandi. Uno specializzando, qui ci sguazzerebbe. Potrebbe imparare e fare tutto, applicare tutto ciò che conosce, mettersi in gioco. Poi, quando ritiene di aver bisogno di passare alla chirurgia maggiore, nella rete, potrebbe spostarsi altrove. Ma qui, sicuramente, acquisti sicurezza e ti corazzi per poter poi affrontare tutto il resto. Tutto ti forma nella nostra disciplina. Ad esempio, io so gestire le urgenze perché ho fatto 16 anni di elisoccorso con anche un certificato europeo di Ecmo, ideale per gestire il paziente ad altissima complessità, ma, prima di arrivare qui, non avevo mai visto determinate casistiche neanche a Trento, pazienti psichiatrici gravi, autistici gravi, pazienti obesi che da intubare richiedono competenze molto particolari ed esperienza.  

Come vengono mappate le competenze dei giovani medici in reparto? 

Ogni anno, io faccio un colloquio con i miei collaboratori medici dove insieme riempiamo dei campi per valutare le competenze acquisite e se gestite in autonomia o con un tutor. Questa valutazione è uguale per tutta l’APSS e vale per tutti i dirigenti medici assunti. Ad esempio, per noi un anestesista può risultare autonomo dopo che ha gestito un tot numero di intubazioni, può andare in elisoccorso se ne ha fatte almeno 200 e così via. Serve per definire quale grado di autonomia hai all’interno della tua équipe e, di conseguenza, definisci il tuo organico. Nella prospettiva di una rete, serve anche per creare una condivisione tra le strutture, oltre che per programmare attività future. 

QUALITÀ

Un giovane medico, in Trentino, guadagna di più? 

Un medico in ingresso parte da una base che è poco sopra a quella nazionale ma ci sono parecchi benefit. Ad esempio, i colleghi che vengono a darmi una mano sono pagati molto bene come prestazioni aggiuntive. Poi esiste una retribuzione di risultato che varia a seconda delle competenze, probabilmente più alto che altrove. Però, i medici, secondo me, vengono in Trentino per la vivibilità della città. Ho amici colleghi che vengono da fuori per far vivere meglio la famiglia. I servizi sono migliori che altrove. Vengono qua per la qualità della vita. 

Cosa significa lavorare in un ospedale di valle? 

Significa lavorare in équipe che veramente si spendono, non solo per me ma per il paziente, ci tengono davvero. Io do tanto ma ricevo altrettanto da loro, anche dagli infermieri. Si lavora fianco a fianco, ci si conosce, debolezze e pregi, e ci veniamo incontro per il bene del paziente. Ci sono conflitti da gestire e non è sempre facile ma loro dicono che se ci riescono è perché vedono in me un punto di riferimento, sanno che non farei mai loro del male. Lo faccio per me stessa ma anche per il bene di questo ospedale.  

Cosa ama del suo lavoro? 

L’idea che quello che faccio sul paziente abbia successo, lo faccia star bene. Io non mi fermo finché non vedo il risultato positivo, non raggiungo il benessere del paziente. 

Che caratteristiche deve avere, secondo lei, un bravo anestesista? 

Deve amare il suo lavoro. Quando ama il suo lavoro, poi gli piace fare tutto. 

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